…come with me into the the trees we’ll lay on the grass…

LA FESTA DELLE ERBE

Quei coltellacci infine servivano a qualcosa...mentre Castor si faceva largo tra i rovi, Artemisia contemplava i miseri resti dell’orlo della sua gonna. Tra le dita sottili reggeva i sandaletti di corallo prezioso che aveva deciso di levarsi alla svelta per camminare meglio nel bosco. Ogni tanto allontanava un insetto con gesto nervoso, facendo tintinnare le gioie infinite che portava al polso. Più sotto, a una decina di passi da lei, gli scagnozzi del suo nerboruto centauro stavano litigando per decidere se aprire o no alcune delle birre che si erano portati dietro. Se avessero almeno avuto la grazia di non seguirli fin nel folto della boscaglia...avrebbe rinviato volentieri il suo ingresso alla festa di S.Giovanni per dedicarsi ad altri giochetti. Niente da fare. Con un codazzo di motoclisti in maglietta nera stracciata, chiassosi come foche e triviali come un branco di tritoni ubriachi, lei e Castor si erano inoltrati nel bosco, un luogo sperduto tra i colli a sud di Felsina, seguendo le confuse indicazioni che il principino Evàn aveva lasciato mentre era, piacevolmente, distratto da "altri"...e così dovevano avere mancato una svolta, o preso il sentiero per una vigna sbagliata. Il sole era ancora alto, ma la festa sarebbe cominciata comunque senza di loro. E la sirena, tutto sommato, desiderava assistere personalmente al momento in cui la reginetta di maggio avrebbe dovuto rinunciare alla sua corona.

Desiderio piuttosto diffuso tra le sirene, quell’anno.

"Dovremmo esserci… o quasi", sbuffando un poco, Castor ripuliva le lame sui suoi pantaloni di pelle e le allungava una mano per aiutarla a scendere dal tronco dove lei si era accomodata. Con un guizzo Artemisia saltò nel sottobosco e si fece largo sotto il rovo. Non mancò certo di sorridere al suo cavaliere e ai suoi compagni, che si affrettarono a seguirla, il più a ridosso possibile.

Il frutteto abbandonato era qualche metro sotto di loro, circondato da un muretto a secco diroccato e da una fitta cortina di noccioli e sambuchi. Copriva un piccolo avvallamento e si arrampicava poi su un lato della collina fino a confondersi con il bosco in cima.

La luce del pomeriggio inoltrato, rosea e dilagante, si riempì di un frenetico pulviscolo di pollini dorati e petali di melo tardivo, sfiorando con poche pennellate di fuoco liquido le chiome disordinate degli alberi. Peschi, susini, prugnoli, meli e peri,neri mandorli e giganteschi ciliegi, densi cespugli di more e lamponi si piegavano sui sentierini del giardino, carichi com’erano di frutti innaturalmente maturi e splendidi. Per la pura gioia degli occhi ad alcuni alberi era stato imposto di portare le loro vestigia di primavera e così accanto ai pomi succosi e alle bacche luccicanti, tra lussureggianti fronde in milioni di sfumature di verde, si gonfiavano nubi di boccioli pallidi o rosa, cascate di glicini e rose rampicanti. Artemisia si trovò presto a vagare in una pioggia delicata di petali di seta mentre cercava di riconoscere il sentiero invaso dalle bocca di leone e dalle spighe della digitale purpurea in fiore.

Oramai le dolevano i piedi,certo non usi a camminare sulla dura terra, e i rami spinosi degli arbusti le frustavano le gambe scoperte. Aveva dovuto raccogliere il suo strascico argentato per evitare che il sottobosco ne facesse definitivamente scempio, e i capelli le scivolavano sulla schiena, umida, arricciandosi. Ebbe appena il tempo di richiamare un po’ d’incanto per sistemarsi la gonna, perchè la radura si spalancò improvvisamente dinanzi ai suoi occhi, proprio là dove credeva che una muraglia di sorbi e gelsi le bloccasse la strada.

E nelle luci tremule di un caldo crepuscolo di giugno vi trovò le fate.

Il Principe e la sua amante si arrotolavano sotto un padiglione di alchechengi luminosi, gelsomini e maggiociondoli fioriti. Con le gambe nude intrecciate, si imboccavano di bacche o succhiavano piccoli favi di miele l’uno dalle dita dell’altra, mentre le coppe d’argento venivano costantemente riempite di vino scurissimo o latte. E mentre la marchesa affondava le mani in uno scrigno traboccante di gioielli suntuosi, il Principe le carezzava la coda con dita zuccherine,e poi la schiena, il collo, la nuca, i capelli. Dove Tamara portava, ancora per quella notte, la corona di fiori della regina di maggio.

Avvicinandosi per porgere i suoi omaggi Artemisia notò appena, in un angolo buio, uno scintillio, come di ferraglia. All’ombra di un rovo Malachite sedeva, solo, rigirando tra le dita una coppa, colma ma intatta.

Sorrise al cavaliere, e si inginocchiò dinanzi alla coppia. Lì accanto un gruppo di incantati, con la pelle meravigliosamente tatuata e i capelli di ogni colore dello spettro, si deliziavano con il vino del principe. In quella turba scorse le corna di Sendi, che stava dando un senso nuovo alla tradizione della "Festa delle Erbe". Tra i riccioli di fumo dolciastro cominciarono a danzare le lucciole, che si erano volute multicolori per intonarsi allo stile degli amici di Evàn. Altri mortali danzavano nel prato, leggeri e sensuali, come sonnambuli. Poi la sua attenzione fu rapita da un argentino scrosciare di acque, e quando vide il ruscello che, poco discosto , scendeva in cascatelle dal declivio, vi si diresse lesta. Danzando lei pure.

Immerse le pinne stanche in una pozza cristallina e gelida, dove nuotavano pesci di rubino e foglia d’oro. Un bombo grasso, in perfetta tenuta da cameriere, le si avvicinò ronzando offrendole un calice sottilissimo colmo di un delizioso chiaretto. Quando si fu rinfrancata, cominciò a pettinarsi i capelli, per sciogliere i nodi e levare le ragnatele.

"Quando le sirene si pettinano i capelli s’annuncia la tempesta"

Delle donne velate parlavano alle sue spalle. Camminavano in fila su per il colle, là dove si allungavano le prime ombre della sera. Da qualche parte, in tutto quel nero, doveva esserci la Strega del Principe.

Artemisia continuò a giocherellare con le sue chiome, e prese a canticchiare, a bassissima voce. Impercettibili cerchi iridati si aprirono nell’acqua, mentre i pescetti metallici parevano ipnotizzati dai fulgori che le luci della sera accendevano sulle sue squame di sirena.

Nel frattempo Castor aveva svegliato a calci il suo gemello, ubriaco sotto i rami della vigna, e i suoi scagnozzi cercavano di acchiappare i bombi volanti per tracannare il vino dolce o provavano a intortare le ballerine. I più però avevano preso a guardare in cagnesco i cavalieri con lo stemma del fiore di mandorlo, che avevano appena fatto il loro ingresso nella radura incantata. Erano pochi, e stranamente composti. Il primo con la sua bella bottiglia di tequila sotto il braccio. Il duca...non c’era. A guidarne le fila invece un ragazzo con un fioretto al fianco e una svolazzante camicia bianca. Tutti si davano un grandaffare per evitare di calpestare la magnifica coda iridiscente che lo seguiva in uno strascico di verdi metallici e lampi d’oro. Kaleidon.

"Hai visssto, pesssciolino...oops mia duchesssssa...ne ha fatta di ssstrada da sssolo, il ragazzo..."

I pescetti sparirono all’istante negli anfratti muschiosi della roccia, mentre una figura sinuosa emergeva dalla polla d’acqua.

I servitori volanti di sua maestà, bombi in marsina e bambine con ali vellutate di falena, agili ragazzi farfalla e donne vespa, avevano oramai acceso lampioncini di carta colorata su ogni ramo, e in quella luce tremula Artemisia vide distendersi nell’acqua il disegno intricato di scaglie luccicanti e viscide, coperte da strati di stracci bagnati. Occhi gialli da serpe e odore di fosso. Con un leggero sciabordio il Magalasso allungò le sue spire accanto alla sua coda.

"Ha fatto giurare che non ci sssaranno guai, sssstasssera, per la sssolenne fesssta delle erbe...ma tutti i cavalieri della tequila bruciano di ssstrane voglie...e se non sssbaglio, quel tizio nudo laggiù sul prato è il "capretto"...lasssscia che i cavalieri arrivino abbassstanza vicini al principe da sssentirne il profumo e ...giuramento o non giuramento... il duca-sssosssstituto, il nossstro Kaleidon-non-ti-ssscordar-di-me avrà un bel daffare a mantenere la pace e la faccia...ssss...e a proposssito di faccia...è meglio che mi infili la massschera prima di raggiungere gli altri ossspiti..."

"Sì. Infilati subito la maschera e sparisci."

La serpe col viso celato uscì dall’acqua e gocciolando camminò verso il centro del prato. Non voleva perdersi i fratelli Velcha che davano il peggio di sè, e, comunque, in un modo o nell’altro, prima o poi, avrebbe dovuto dare una mano a Kaleidon. Acchiappò al volo un delicata fanciulla volante e le rubò la coppa di vino pesante che stava recando con sé. Leccò ben bene ogni goccia di vino dal fondo con la sua lunga lingua biforcuta.

"E perciò, in nome del patto che vi lega al duca, e quindi a me, non voglio vedere alzarsi una mano di offesa nè sentire insulti o chessòio. Ricordatevi, siete cavalieri e non canaglia e..."

"Chi sarebbe la canaglia?io qui vedo solo un gruppo di polli buzziconi che si getta in bocca ai lupi...E un tacchino luccicante scortato dall’uomo della valle degli orti...ma dove avete lasciato la vostra energumena di fiducia? Al ducato a sturare i cessi o a farsi sturare..."

"...e quindi ignorate le provocazioni gratuite di chi non ha altro modo di farsi notare se non la sua straripante volgarità"

"(tre sonori rutti )"

"Appunto."

Castor e Pollux cominciaro a ridere grassamente, piegandosi sulle ginocchia e dandosi gran pacche sulla schiena. Il principe di Ivrea passò in silenzio. Qualcuno sputò. Sì udì distintamente il rumore di una bottiglia che si rompeva. E l’urletto sovracuto di un bombo che si andava a nascondere tra le foglie.

"Non ci provate neanche. Avete già rovinato abbastanza feste, per i miei gusti. Se volete usare le mani fatelo per mangiare, ma attenzione che tutto scotta...Signori...ahem... il banchetto della festa delle erbe è servito"

La fata Kadumba, con un grembiule di pratoline rimboccato sui gomiti, fece allora il suo ingresso sul prato seguita da una dozzina di pecore candide e grassottele. E sulla schiena di ciascuna, ben sistemate su portatine di rami di pesco, c’erano padelle e casseruole, pentole e tegami, vassoi e zuppiere, pesciere e stampi da budino. In coda al gregge un montone portava in groppa un enorme un calderone. E da tutti i coperchi si levavano vapori succulentiche invasero il frutteto mentre Kadumba stendeva tovaglie bianchissime sotto gli alberi e con colpetti di bastone dirigeva il suo gregge. Poi con studiata lentezza svelò il contenuto del suo tesoro, dando di quando in quando una aggiustatina di spezie ( che prelevava da una delle molte tasche del suo grembiule) o un rimescolatina o un assaggino in punta di lingua. Più tardi qualcuno malignò che l’avesse fatto apposta a far morire tutti di voglia, attirandoli attorno a quelle delizie e poi impedendo a chiunque di avvicinarsi fino a che lei non avesse giudicato tutto più che perfetto. Pena per i trasgressori: un colpo di bastone ben assestato e conseguente pecorizzazione..."giusto per trovare qualcuno che mi aiuti a portare via i piatti sporchi..."avrebbe detto Kadumba sprizzando scintille rosse dagli occhi color rubino.

Comunque finchè tutti mangiarono nessuno si prese a botte.

Il Principe, dopo essersi legato ai fianchi un lenzuolo rosso, venne a servirsi tre volte, ma mangiò in disparte, sotto il suo padiglione, che aveva arricchito di una tela di ragno trapunta di stelle per nascondere...grossolanamente...quello che vi accadeva.

Artemisia si asciugò e venne a farsi imboccare da cavalieri e scagnozzi con deliberato intento provocatorio.

Tanachvil e le sue streghe non vennero affatto.

Intanto si avvicinava mezzanotte. Il cielo, da grigio lilla era sfumato nell’indaco più puro e le stelle rivaleggiavano in fulgore con le luminarie delle fate. Era la notte di S.Giovanni. La feste delle Erbe. E delle streghe.

Nonostante i bagordi, nessuno poteva dimenticarlo.

A mezzanotte il silenzio calò sulla radura e i servitori volanti si diedero un gran daffare per spegnere tutti i fuochi il più rapidamente possibile. Perchè ora , per illuminare il prato non c’era bisogno di fiamma fatata o luce mortale. Dinanzi alle fate di Felsina si compiva un piccolo miracolo come non se ne vedevano dall’età dei Sogni...tutto il declivio alle spalle del frutteto si era acceso di piccoli fiori di fuoco, tremuli come candele ma infinitamente più luminosi. Dorati, scarlatti e stranamente feroci. Erano Fiorellini di San Giovanni. Erbe dalle incredibili virtù che mano mortale non può toccare senza morire. (E quindi era forse un bene che tutti gli incantati fossero caduti in un profondo sonno etilico).

Da sinistra e da destra due figure in lunghe vesti cominciarono ad arrampicarsi sul pendio, raccogliendo i fiori di luce e adagiandoli l’una in una coppa d’argento istoriato, l’altra in un vaso d’oro sbalzato. Alla luce trasfigurante dei petali incantati il piccolo popolo fece fatica a riconoscere da una parte Tanachvil, dall’altra Kadumba.

Terminata la raccolta le due dame deposero i contenitori colmi di luce dinanzi alla tenda del principe. Il velo si aprì con un brezza leggera e stregata.

Illuminata dai petali dei fiori la Marchesa era bella come non mai. Sulla pelle lucida di sudore il fuoco disegnava un reticolo di luce che sottolineava le sue forme perfette. E, a parte la corona di fiori, quella luce era la sola cosa che portasse indosso.

Quando sollevò le braccia per levarsi la corona più di uno dei presenti cominciò a tremare. Di voglia e paura.

La coda della gatta ondeggiava, morbida.

"Il mio maggio è finito. Tramonta il sole. Si spegne lo splendore delle stagioni. Ma senza lacrime guarderemo la bellezza morire perchè tutti sappiamo che essa tornerà a fiorire. E senza lacrime guardo la mia corona appassire perchè so che la mia bellezza la potrà fare per sempre fiorire"

Appena Tamara si tolse la corona di capo, i piccoli boccioli che fino a quel momento avevano mantenuto intatta la loro freschezza si accartocciarono e si spense di colpo la luce delle mille gocce di rugiada. La Marchesa ripose la coroncina in seno e si fece accogliere dal manto nero con cui, alle sue spalle, il Principe l’avvolgeva. Avrebbe custodito la coroncina fino al prossimo Beltane, quando il maggio l’avrebbe fatta rifiorire perchè fosse donata alla fata più bella.

Ora la notte si era fatta più buia, e impercettibilmente più fredda. Tutta la grazia della Marchesa era risucchiata dal fosco abbraccio del suo signore.

Mentre Artemisia rimarcava alle orecchie più vicine che quel "mia" nella formula rituale non c’era, Tanachvil e Kadumba di avvicinarono a Evàn. Avevano raccolto per lui i fiori di fuoco e ora il rituale prescriveva che glieli richiedessero in dono per poterli usare nelle loro stregonerie.

Un tuono rimbombò da est.

"Al signore della terra io chiedo...

Altro tuono...cupo...vicino.

Evàn guardò il cielo stupito, stringendo le mani della Marchesa.

Da sotto il velo nero, che mai si era levata, Tanachvil continuò a pronunciare le formule rituali, seguita lesta da Kadumba che per un istante si era fermata a fissare con aria interrogativa prima il cielo e poi il principe.

Evàn tagliò corto "Sono vostri, tutti. Tranne uno. Portateli via prima che le campane suonino e spezzino l’incant..."

Il cielo d’oriente si stava rapidamente riempiendo di nubi viola, gonfie di pioggia, accese da lampi, striate da saette guizzanti come vipere. Un tonare basso e continuo, stranamente ritmato, come di musica, faceva tremare la valle.

Pollux fece per gridare "Bene piove!Strappiamoci i vestiti e trombiamo!" ma qualcuno lo zittì con un pugno.

Evàn strillava mentre la Marchesa cercava vanamente di tappargli la bocca con un bacio.

Nell’ombra alle spalle del Principe qualcosa di indefinito ma nerissimo fremeva.

Malachite toccò l’elsa della spada e lanciò un fischio. Dalle chiome degli alberi gli occhi rossi delle sue ninfe-aracnidi presero ad ardere come tizzoni. Da un cespuglio balzò una strana bestia tigrata che si mise quietamente al suo fianco.

Intanto una bufera barocca riempiva la volta celeste, occultando le stelle.

Vasti cumuli- nembi di un carico lilla, sfregiati da strati di fuchsia e porpora sanguigno si arrotolavano in alto, miscelandosi al buio. Una cattedrale di luci cangianti e rigonfi vapori coprì le montagne sfrangiandosi in veli ardenti e rosati, riccioli blu e faville d’amestista.La luce dei lampi andava e veniva con frenetica intermittenza e il tuono ritmato faceva pulsare le tempie e smuoveva i piedi. Come tamburi.

Poi qualcosa di metallico si mosse nel cielo...lucido...argento...cromato...sette auto lunghissime e scintillanti che rombavano sulle nuvole viola, avanzando come irrefrenabili valchirie High-tech, con le casse dello stereo che urlavano di bassi e suoni elettrici,convulsi e seducenti. Le carozzerie lanciavano schegge di luce fredda, mentre le ruote giravano come impazzite sul sentiero di nuvole.

Le fate se ne stavano con il naso all’insù. E la bocca aperta.

Sette tuoni potentissimi esplosero sulla valle e sette fulmini blu caddero nella radura abbattendo altrettanti alberi, dalle nubi piovvero spruzzi di scintille e di fuochi articiali d’argento.

Sette lunghi pali erano stati calati nel frutteto.

Erano lucidi e percorsi da piccole scariche elettriche.

Scivolando sinuose in una complicata e aerea lap-dance sei ballerine discinte fecero il loro ingresso nella radura.

La settima era Belinda Syrena.

Nei capelli portava le luci guizzanti della folgore, il trucco superbo di viola e argento. Al collo sette piccole stelle.

Coperta di glitter dalla testa ai piedi camminò tra le fate di Felsina dall’alto dei suoi irraggiungibili tacchi mentre pareva che una magnifica aurora boreale le accarezzasse i suoi seni e i fianchi.

"Ti sei vestita di viola per non far vedere i lividi?" la voce della Marchesa ruppe l’incanto, ma Belinda la ignorò con disinvolto candore.

Si inginocchiò ( o meglio accennò quel tanto d’inchino che le sue scarpe le permettevano) dinanzi al Principe, e fece un sorriso che avrebbe sciolto chiunque. Evàn si fece avanti. Sorrideva, ma non lasciava la mano della Marchesa.

"Mio dolce Principe, Fate di Felsina, Amici del Sogno, in questa notte di splendore vengo a portarvi i miei doni, per rinsaldare gli antichi patti che legano indissolubilmente Felsina al mio marchesato, e i vostri cuori al mio, prima che le campane dell’alba li sciolgano, come vengono sciolte tutte le cose effimere...la freschezza di un fiore...il rapido maggio...il fascino di una cortigiana. Accettate le mie luci d’argento per illuminare la vostra notte e la malia sfolgorante della mia estate per accendere i vostri spiriti. Il mio dolce principe vi ha infiammati con il suo nettare prezioso, ebbene io intendo alimentare il vostro fuoco in un incendio... perchè il fuoco acceso a San Giovanni non si spenga mai."

Belinda Syrena di voltò di colpo verso gli astanti. I suoi occhi di porpora e luna bruciavano così vividi che difficile era riconoscervi alcuna emozione. Le limousine celestiali irruppero nella radura e vi riversarono il loro carico di ballerini e musica. E mentre le danze s’intrecciavano alla luce dei falò accesi dai fulmini dell’incantatrice... battiti di ciglia, studiati sorrisi, languide e rapide carezze intessevano nuovi patti, piccole allenze, strane fascinazioni.

Artemisia venne presa per un polso e Belinda volle danzare con lei. Sirene di nome e di fatto si abbandonarono al piacere della musica e della reciproca bellezza concedendosi quel tanto che bastava ad accendere il desiderio. Loro e altrui.

Dal cielo continuava a scendere una pioggia d’argento e lacrime.

E quando Artemisia le graffiò la schiena nuda, Belinda le rubò un bacio.

Evàn lasciò la mano di Tamara.

La musica cessò.

Belinda, ansante, scivolò lontana...si riallacciò il top...si pettinò i capelli..."non voglio che tra il marchesato e voi vi sia inimicizia, vorrei invece che questa danza durasse davvero in eterno. Ma il tempo fugge e geloso ci strappa i piaceri della notte.Presto le campane di San Giovanni dissiperanno i nostri incanti e io voglio tornare al mio letto solitario prima che sorga il sole. Ma danzeremo ancora insieme, ve lo prometto. A fine estate, nella stagione festeggeremo con tale gioia da farci dimenticare l’imminente inverno."

Sorrise.Come un coltello.

E sul campo rimase solo tanta cenere.

Tanachvil si avvicinò al suo principe e gli donò un fiore di fiamma.

Evàn lo accettò senza un sorriso.

Si allontanò di qualche passo.

E lo regalò al suo amore.

"Quando le sirene si pettinano i capelli s’annuncia la tempesta"